Le Nozze degli Dei dell’abate Giovanni Carlo Coppola

L’abate Giovanni Carlo Coppola, poeta gallipolitano, nell’anno 1634, giunse a Firenze da Roma, dove per alcuni anni aveva soggiornato, stimato e protetto, presso il pontefice Urbano VIII, dal quale successivamente, per il suo poema sacro, Maria Concetta, riceverà l’appellativo di “Tasso sacro” 1.
Il granduca di Toscana, Ferdinando II de’ Medici, favorevolmente impressionato “dalla sublimità e felicità de’ suoi versi”, lo volle come poeta di corte, assegnandogli una ricca pensione ed ospitandolo nel Palazzo Pitti.
A Firenze, felicemente governata dai Medici, già da tempo era stato dato l’impulso decisivo al nascere del melodramma, grazie a Giovanni Bardi dei Conti di Vernio, esperto di arte musicale, dottissimo accademico della Crusca, che, negli ultimi due decenni del Cinquecento e nel primo del Seicento, riunì nella sua Camerata (detta anche Camerata fiorentina), non solo eruditi, filosofi, letterati ma anche esperti musicisti novatori, come Jacopo Peri, Giulio Caccini, Vincenzo Galilei (padre di Galileo), Girolamo Mei, Pietro Strozzi, Claudio Monteverdi, Emilio de’ Cavalieri, ed il poeta Ottavio Rinuccini.
Moltissimi erano gli interessi spirituali che circolavano tra questi uomini di varia età e di versatile cultura: ed è già significativo che codesti interessi si accentrassero tutti nella musica, la quale ne veniva illuminata e, almeno nell’intenzione, rigenerata. Unanime era, infatti, fra quegli artisti e teorici la convinzione che la musica contemporanea fosse corrotta e che occorresse risalire alla fonte per reintegrarne i giusti valori. Per essi la fonte era rappresentata dalla musica dei Greci, di cui la moderna era una degenerazione: dai principi di Platone, coi quali non era possibile conciliare quel gioco capriccioso e gratuito che si chiamava contrappunto.
Il musicista Giulio Caccini, che fu uno dei più assidui frequentatori della Camerata, così scrisse dei dotti sodali del cenacolo culturale e della necessità di superare la forma musicale del contrappunto: “[…] avendola frequentata [la Camerata] anch’io, posso dire d’aver appreso più dai loro dotti ragionari, che in più di trent’anni dal contrappunto; imperocchè questi intendentissimi gentiluomini mi hanno sempre confortato, e con chiarissime ragioni convinto, a non pregiare quella sorte di musica, che non lasciando intendersi le parole, guasta il concetto ed il verso, ora allungando ed ora scorciando le sillabe per accomodarsi al contrappunto, laceramento della poesia, ma ad attenermi a quella maniera cotanto lodata da Platone ed altri filosofi, che affermarono la musica altro non essere che la favella, e ‘l ritmo, ed il suono per ultimo, e non per lo contrario; a volere che ella possa penetrare nell’altrui intelletto e fare quei mirabili effetti che ammirano gli scrittori e che non potevano farsi per il contrappunto nelle moderne musiche, e particolarmente cantando un solo sopra qualunque strumento di corde, che non se ne intendeva parola per la moltitudine dei passaggi, tanto nelle sillabe brevi quanto lunghe, ed in ogni qualità di musiche, pur che per mezzo di essi fussero dalla plebe esaltati e graditi per solenni cantori”.
Il contrappunto era il nemico: esso, trascinando la parola nel torrente di prestigiosi intrecci vocali, dilettava l’orecchio ma non colpiva l’intelligenza. I novatori, studiando gli scrittori ellenici e facendo riferimento all’antico dramma greco, erano giunti alla convinzione che la recitazione greca fosse un “recitar cantando”, cioè un che di mezzo fra il parlare e il cantare: di qui l’idea di una musica greca non solo senza contrappunto e senza armonia, ma senza melismi e semplicemente lineare. Occorreva rispettare le parole in quanto esprimevano un concetto, e soltanto metterne in evidenza con l’intonazione musicale i valori espressivi, imprimendo alla monodia un andamento quasi di declamazione ben ritmata e fraseggiata: questo il programma.
La poetica del “recitar cantando” valeva per i poeti come per i musicisti: c’era l’impegno teatrale, cioè la necessità di adoperare i versi e i metri in una funzione che li facesse scorrere lungo una linea continua di canto sommesso e recitato. Questa poetica acquisita ormai ai principi dell’arte nuova, portò a un’alleanza tra le composizioni che allora si recitavano – favole pastorali, tragedie, intermezzi – e la nuova tecnica musicale: che era un passare dalle teorie all’applicazione.
Era nato, ormai, il melodramma, che, agli inizi, dopo essersi affermato come teatro di corte a Firenze ed a Mantova, come sublime trascrizione dei sentimenti dei principi, fiorì soprattutto a Roma e a Venezia.
La prima applicazione delle nuove teorie fu la Dafne, rappresentata, nel 1594, nel palazzo Corsi (dal 1592 nuova sede della Camerata), a Firenze, su testo del Rinuccini e musica del Peri: ampliata e riveduta fu rappresentata, di nuovo, nel 1597, alla presenza della granduchessa Cristina di Lorena, moglie di Ferdinando I dei Medici, e dei cardinali Del Monte e Montalto. Seguì, nell’ottobre del 1600, rappresentata a Palazzo Pitti, per festeggiare le nozze di Maria de’ Medici, nipote del granduca Ferdinando I, con Enrico IV di Francia, l’Euridice, dello stesso Rinuccini e musicata dal Peri. A Mantova presso la corte dei Gonzaga venivano presentate dal Monteverdi, con grande successo, dinanzi ad un pubblico di seimila persone, nel 1607 l’Orfeo, e nel 1608, in occasione delle nozze del duca Francesco Gonzaga e Margherita di Savoia, l’Arianna.
In queste opere la macchina scenica sfoggiò bravure inaudite, tanto che il poeta di corte, Michelangelo Buonarroti il Giovane, esperto di lettere e scienze, allievo del Galilei, dando notizia di questi spettacoli, vi scorgeva e vi ammirava “piaceri di mente e di senso”: infatti, nei suoi svolgimenti e nella sua diffusione, il melodramma mostrerà di non sdegnare affatto la sontuosità e l’illusionismo scenico.
Chi, però, a codesta arte impresse il suggello del genio, avviandola a grandezza, fu Claudio Monteverdi che vi infuse una vita artistica superiore e più precisamente un accento di umanità fervida e commossa, e, aggiungendo al recitativo l’elemento lirico, sollevò l’opera ad una tensione veramente drammatica.
In omaggio alla felicità delle nozze e alla serenità del granduca Ferdinando II e di Vittoria della Rovere, principessa di Urbino, nel gennaio 1637, l’abate Coppola scrisse una Favola in versi per musica (un melodramma) dal titolo Le Nozze degli Dei che fu rappresentata, l’8 luglio 1637, in un teatro all’aperto, nel cortile dell’Ammannati, che immette nel famoso giardino di Boboli di Palazzo Pitti,
Nella sua Relazione che, con intendimenti commemorativi, stampò dopo la rappresentazione dell’opera, “acciochè quelli, che la videro [la Favola], leggendola, possano rinfrescarsene la memoria, e il diletto; e quelli, che per lontananza di luogo, ò di tempo non l’hanno goduta, ne partecipino in quel modo, che è possibile”, il critico fiorentino Francesco di Raffaello Rondinelli così scrisse: “In occasione delle sue felicissime Nozze […], determinato il Sereniss. G. D. di fare una Comedia cantata, diede la cura di comporla al Sig. Abate Gio. Carlo Coppola Poeta celebre de’ nostri tempi, la cui fama e le cui composizioni, essendo notissime al mondo, non hanno mestiero di nostra lode, il quale messa da parte la Tromba della Poesia Epica [aveva già composto, nel 1635, il poema sacro Maria Concetta], e posto mano alla dolcezza, e soavità della Drammatica, in brevissimo tempo compose un’Opera, […], e scelse di rappresentare le Nozze degli Dei, che tale è il Titolo della Favola […].
Nell’introduzione alle Nozze, il Coppola così si rivolgeva ai lettori: “Sappia il benigno lettore, che io nel comporre, e stampar questa opera non hò avuto altro fine, che di ubbidire al comandamento del Serenissimo Gran Duca, à cui servo; il quale mentre ch’io era con l’animo più che mai alieno da simili Poesie, mi comandò, che componessi la Comedia, la quale si dovea rappresentare in Musica nelle sue felicissime Nozze. Mi restrinse à breve spazio di tempo per condurla à fine, come quegli, che havea gusto di vederla compita avanti la sua partenza per Pisa. M’ordinò soggetto allegro, quale si conviene à Nozze, e per dar maggior campo all’inventor delle Machine di abbellirla con varietà, e vaghezza di Prospettiva; volle contenesse festa in Cielo, in Mare, e nell’Inferno: Ond’io presi per soggetto le Nozze degli Dei, trattandone quattro più celebrate da’ Poeti; cioè quelle di Giove con Giunone; di Vulcano con Venere; di Plutone, e Proserpina, e di Nettuno con Anfitrite. […]. Così pensai sodisfare alla volontà del Serenissimo Gran Duca il quale trà sette giorni vide la Comedia finita, l’udì letta da me, e mostrò non poco gradirla. Spero che la brevità del tempo, nel quale è stata composta scuserà le imperfezioni, che ci sono, e l’havere ubbidito al comandamento di S. A. S. e forse incontrato il suo gusto le arrecherà qualche lode. […]. Non tralascerò di dire, che per fuggir la lunghezza, che portan seco le Musiche, e le Machine, e per la stagione molto calda, e poco atta agli spettacoli, e per la brevità delle notti, quella che si rappresentò fu in gran parte scemata, e variata da questa, che si stampa. Ricordo ancora, che dove troveranno Fato, Destino, Fortuna, ò simili parole della Gentilità, Intendano che si parla favolosamente, e per leggiadria Poetica, non per offendere la pietà Christiana”.
Rivolgendosi, poi, alla sposa, Vittoria della Rovere, così si esprimeva: “Havendo avuto questa opera fortuna di nascere sotto i benigni influssi del comandamento del Serenissimo Gran Duca suo Sposo, hò giudicato conveniente, che ella esca alla luce del Mondo sotto quelli del nome, e della protezione di V. A. S. sicuro che guardata, e difesa da così favorevoli Pianeti habbia à vivere lungo tempo senza temere i contrari aspetti delle stelle maligne. Supplico V. A. Serenissima à gradire la mia confidenza, e devozione: effetti l’uno della sua benignità, l’altro della sua grandezza; prego à V. A. Serenissima ogni bene, e li fò humilissima riverenza. Di Firenze il dì 1 Agosto 1637. Di V. A. S. , Humilissimo, ed obligatissimo servidore, Gio. Carlo Coppola.
Le speranze del poeta non vennero deluse poiché la sua Favola, incontrò per prima l’apprezzamento e il “gran diletto” del suo amico Galileo Galilei, alla lettura del quale fu sottoposta non appena terminata la stesura, e successivamente, dopo la presentazione, si attirò i lusinghieri giudizi di numerosi critici letterari toscani che procurarono all’abate grande popolarità e celebrità.
Il fiorentino Gaudenzio Paganino, noto critico dell’epoca, nel suo “Excursus in laudem Io(annis) Caroli Coppulae eximi poetae” così scriveva:”[…] jam Florentiae ostenderis digito praetereuntium: de te ubique multus est sermo. In Aula extolleris, in Academiis commendaris, in coetu eruditorum celebraris”.

Il Coppola, nella composizione dell’opera, che risente della fretta con cui fu pensata e scritta, pur rispettando i canoni letterari convenzionali del tempo, si preoccupò di andare incontro al gusto del pubblico, al quale piaceva l’effetto bizzarro, complicato e spettacoloso, cadendo spesso nel ricercato ed a volte nell’ampolloso.
Egli, sollecitato dall’intento encomiastico e celebrativo, fece ricorso a tutto il suo sapere classico e mitologico, che qualche anno prima aveva felicemente utilizzato per la stesura del poema sacro Maria Concetta e successivamente per il Cosmo o vero l’Italia Trionfante, che gli procurarono, meritatamente, grande fama nel 16002, offrendo ai musicisti e ai cantori quelle parole “dalla cui intelligenza nasce il vero diletto”.
Nell’opera, strutturata in un prologo e cinque atti, vi è concordanza fra musica e poesia, integrazione fra parole e recitazione, un linguaggio letterario quasi sempre chiaro che con toni tasseschi sfrutta elementi petrarcheschi e polizianeschi; in essa le varie situazioni tendono a spianarsi in cantilene ben fraseggiate, che seguono il senso delle parole, e lo accentuano con attente modulazioni.
La Favola fu musicata dall’allora notissimo compositore Francesco Saracinelli che si avvalse di altri cinque compositori fiorentini e per l’esecuzione di 150 orchestrali. Dell’allestimento scenografico si interessò Alfonso Parigi che dovette affrontare innumerevoli difficoltà, avendo voluto Ferdinando II “eleggere per teatro di questa festa il cortile del proprio palazzo”, e approntare “con fastosità barocca tutto un apparato spettacolare di ‘macchine’ teatrali nel tentativo di creare visioni impensate di mondi marini, terrestri e celestiali popolati da dei e mostri della mitologia classica”. Il coreografo fiorentino Agnolo Ricci curò sapientemente i balletti intercalati tra una scena e l’altra.
Nella Relazione del Rondinelli, ancora, così si legge: “Riuscì mirabile la squisitezza dei balli per la loro varietà, e per il numero dei Cavalieri che ballavano. Dilettò grandemente l’aggiustatezza delle musiche facili nel recitativo, armoniose nei cori, leggiadre nelle ariette e fu degna di considerazione la quantità delle donne, che tutte eccellenti, oltre la Sig. Paola e la Sig. Settimia, cantarono a questa festa con gran lode, come ancora il non c’essere intervenuti musici forestieri, se non solo quelli che da gran tempo in qua ricevono stipendio da S. A. Ed insomma gli abiti oltre ogni credere ricchi e appropriati a’ personaggi, le stesse mutazioni di scena, le macchine che quasi di continuo per quella si rigiravano mostrando perfettamente quanto oggidì possi far l’arte, cavarono questa festa dal numero delle ordinarie […]. Furono invitate à questo spettacolo per parte di S. A. le Gentildonne Fiorentine, le quali per tempo venendo a Palazzo furono condotte da alcuni Gentil’huomini deputati nel Teatro, ove accomodate si adagiarono i Principi nella residenza apprestata per loro Altezze. […]; dietro le Altezze erano panche parate per i Signori Parmigiani, e nel resto del palco tutta la Corte. Mentre il popolo impaziente della dilazione di uno spettacolo così meraviglioso, si stava aspettando; s’alzò la Cortina, la quale copriva la Scena, ove era dipinto il Chaos , […]. Mentre che gli occhi de’ riguardanti stavano tutti intenti à queste bellezze cominciò il Prologo della Comedia, si vide aprire il Cielo, e soavemente scendere una Nuvoletta tutta candida, e lumeggiata d’oro, dentro alla quale si ravvisò essere Imeneo il Dio delle Nozze con una chioma biondissima, e crespa, il quale nella mano destra portava una facella ardente, e nella sinistra un laccio d’oro, per dinotare, che i cuori degli ammogliati non possono essere stretti nel nodo della Concordia, e della Carità, se prima non gl’infiamma la pudica face dell’amore maritale, la cui proprietà è l’unire, sì come l’odio il separare; […]. Scendeva Imeneo in compagnia della Honestà e della Fecondità, condizioni, che si ricercano alla felicità del Matrimonio; ma la prima è necessaria assolutamente, e l'altra è un effetto felice, che procede da esso”.
Mentre scendevano queste tre Deità così cantavano:

  Questo è l’Arno sì gentile,
        Questa è Flora,
        Che s’infiora
        Nell’aprir del nuovo Aprile.
  Fortunata , e nobil Reggia
        Come splendi!
        Come rendi
        Vago il dì, ch’in te lampeggia!
  Quanta pompa orna il diletto!
        Gioia spira
        Ciò, che mira
        L’occhio intorno, o brama il petto.
  Gode l’aria, e ‘l Ciel sereno;
        Ecco l’onde
        Tra le sponde
        Corron liete al Mar Tirreno!
  Piovan larghi à sì bei Regi
        Nostri doni,
        Si coroni
        Sommo honor d’eccelsi pregi.

Imeneo così continua a cantare da solo:

  Io, che d’aurati stami ordisco i nodi,
        A’ più pudichi Amanti,
        Che le voglie congiungo, e ‘n dolci modi
        L’Anime lego in salda fe’ costanti:
        Fortunati legami
        Di quel, che pregia il Ciel più luci d’oro
        Tesso a’ chiari consorti,
        E fuor dell’uso in loro
        Tutto spargo il mio bene, e ‘l mio tesoro.

  Questo laccio, e questa face
        Nodo intreccino d’Amore,
        Che soave giunga al core
        Quanto fervido, e tenace.
        Ami ardendo, ed arda amando,
        E Vittoria, e Ferdinando.

Canta Honestà:

  Di candidi pensieri, e caste voglie
        Per me s’adorna de’ mortali il seno,
        E trà’ diletti suoi virtude accoglie.
        Per me si stringe il freno
        Lavè Amor d’ogni legge il cor discioglie.

  Quante glorie il Ciel mi diè,
        Quante darne altrui sò più.
        Qui si diffondano,
        Qui, dove abbondano
        Gl’Incliti Sposi d’ogni virtù.
        Santo foco, e puro affetto
        L’alma invogli, infiammi il petto,
        Casto avvampi, e dolce spiri
        D’ Honestà sensi, e desiri.

Canta Fecondità:

  Io che rendo alla terra il sen fecondo
        Di quanti parti in lei produce il Sole,
        Fò gli huomini, e gli Dei ricchi di Prole,
        E con la mia virtù rinnovo il Mondo.

  Io fecondo, ed io fò degno
        D’alti Regi un sì bel Regno,
        Mentre godi, ed ardi amando
        O Vittoria, ò gran Ferdinando.

Così le tre Deità “conducevano a’ Regi Sposi tutte le contentezze, e le felicità che si possano desiderare” e promettevano loro “una bella, e numerosa prole’: preziosi beni che si augurano a coloro che felicemente convolano a nozze.