1964 - 2009
 I quarantacinque anni dell’Odin Teatret fondato da Eugenio BARBA


Con Eugenio Barba ci siamo rivisti, dopo tanti anni, a Lecce, il 13 novembre del 2002, nell’aula magna dell’Ateneo salentino dove egli tenne una conferenza intitolata “L’Odin nel Salento: la casa di mio padre”, e successivamente a Gallipoli quando giunse con il suo Odin Teatret, il 29 settembre del 2005.
Da qualche anno ci incontriamo in estate a Carpignano Salentino, dove egli trascorre qualche giorno di quiete, nella sua casa a pianoterra, che tanto ricorda, con il suo vecchio portone tinteggiato di verde, e con il cortiletto interno, quelle dei vicoli, delle corti della Gallipoli antica.
Ci sediamo al fresco nel piccolo atrio, su un vecchio divano di vimini, e, mentre sorseggiamo il frullato di frutta, preparato dalla moglie Judy, iniziamo a discorrere.
 
Incontro con Eugenio Barba 

Parliamo di Gallipoli. Eugenio ha desiderio di conoscere la storia della città, dove ha trascorso la maggior parte della sua infanzia, che ha dato i natali ai suoi avi: medici, giuristi, alcuni di essi mazziniani e massoni, che hanno dato un importante contributo alla crescita culturale e sociale di Gallipoli.
Mi lascia parlare a lungo e le mie parole diventano un fiume in piena nel quale egli ben volentieri si immerge. Il suo volto, circondato da una fluente chioma argentea, che ricorda quello arso dal sole di antichi pescatori gallipolini, s’illumina e i suoi occhi brillano di commozione specie quando mi soffermo a parlare del bisnonno Emanuele e del nonno Ernesto.
Mentre ritorno a Gallipoli in me affiora con forza un sentimento di ammirazione e di gratitudine verso questo grande del nostro tempo, questo gigante del teatro mondiale che con il suo ingegno onora la sua terra d’origine.
Egli va ad aggiungersi a quella numerosa schiera di grandi ed autentici innovatori che occupano un posto di primissimo piano nella scena mondiale nella seconda metà del XX secolo per aver svelato assieme al suo Odin Teatret “la complessità e la centralità dell’arte dell’attore e del suo corpo come segno drammaturgico. Un’arte che trova linfa e giustificazione non solo nell’assoluta necessità di poter esprimersi tramite il rigore di un metodo ma anche tessendo una fitta rete di rapporti con il sociale, coltivando, in ogni momento, una tensione ed un’energia rivolte sia all’interno del proprio gruppo artistico e verso il pubblico, sia attente alla realtà ed alle sue contraddizioni”..
Per questo motivo dopo oltre quarant’anni di presenza, l’Odin continua ad essere unico e il magistero del regista Barba ancora assolutamente attuale. Egli nel programma di sala del Sogno di Andersen scrive: “E’ come se una forza poco sensata [tenga ormai] viva la mia necessità di far teatro. Sono i motivi per cui continuo. Posso sintetizzarli con una frase: la professione teatrale è la mia sola patria, e Holstebro la sua casa”..
Ai suoi numerosi allievi, sparsi per il mondo, Barba ha insegnato che il teatro è “artigianato della dissidenza”, in parole povere, rivoluzione. Esso deve “sorprendere e scuotere” continuamente chi lo vede e chi lo fa: ogni spettacolo rappresenta una svolta, il “ritorno a punto zero”. Esso non vuole né intrattenere né difendere delle tesi, solo porre delle domande, cui ogni spettatore deve dare una risposta, pochè “l’’arte impegnataa non deve offrire le risposte giuste, ma porre le giuste domande”. Dell’Odin non sono dunque importanti le risposte (che non ha, che non dà), ma “la sua capacità d’interrogare e attizzare dubbi e sospetti”..
La principale peculiarità dell’Odin è quella di concentrarsi nel training dell’attore insieme con la creazione di spettacoli rappresentati in più di 50 paesi dei cinque continenti..
Questa esperienza di migrazione e viaggio ha avuto una profonda influenza sul lavoro e sulla filosofia del gruppo che, nel tentativo di trovare un altro uso del teatro in contesti differenti, ha sviluppato la pratica del “baratto” sin dagli anni ’70. Il gruppo cioè si propone con un suo training di spettacoli di strada, improvvisazioni, e la comunità ospite, in uno scambio/baratto fra culture, risponde con proprie danze, musiche, canzoni, letteratura orale, cerimonie tradizionali e persino religiose..
Barba non ha mai reciso del tutto il legame con quella terra che lo ha visto nascere e crescere, nonostante il suo appassionato nomadismo intellettuale lo spingesse ad eleggere come patria ideale un luogo della mente piuttosto che un territorio abitato da piccoli uomini. Il “Terzo Teatro”, di cui il regista è l’indiscusso teorico ed artefice, rivela proprio questa condizione di appartenenza ad una necessità, invece che a un bisogno..
Era partito da una terra che ha sempre considerato pudicamente cara. “Nel mio teatro, dice il regista, la camera segreta è la mia infanzia meridionale. […]. Con la sua camera segreta, il teatro è per me il mestiere dell’incursione, una radura nel mondo civilizzato”. Non è un caso che per questo approccio quasi scientifico al mondo dello spettacolo, Eugenio Barba scelga per la scuola, che fonda nel 1979, questa denominazione:: International School of theatre anthropologyy.
Egli che dal 1974 ha la nazionalità danese oltre al norvegese continua a parlare l’italiano. Anche i suoi compagni originari della Norvegia - come quelli che in seguito si sono aggiunti da tutto il mondo - hanno cercato di non perdere la loro lingua. “E’ stata una scelta - dice Barba - fin dall’arrivo ad Holstebro cercare di rimanere noi stessi, di conservare un’identità; un atteggiamento che non intendeva erigere una barriera, bensì inserire l’Odin in Danimarca come un corpo, più che estraneo, integro, autonomo, e fondare, diversamente dal solito, un radicamento sul confronto e la differenza”..
Dando le sue coordinate anagrafiche, il 28 maggio del 2003, il giorno in cui l’Università di Varsavia gli conferì la laurea honoris causa, dichiarò di appartenere “a quella generazione di giovani affamati di libri che quando alzavano gli occhi rischiavano di vedere ossa fra la terra e le macerie portate via dai camion che ricostruivano l’Europa, dopo la seconda terra mondiale”, e di aver scoperto “un’altra fame, oltre quella per il sapere e per i libri”..
Nel cuore di quella vecchia Europa martoriata da un lungo conflitto e che stava curando le sue vecchie ferite, Eugenio Barba incontrerà Jerry Grotowski, il primo maestro, verso il quale è stato sempre riconoscente, che gli fornirà l’esempio della necessità del teatro come laboratorio permanente..

Barba trascorse la sua infanzia e parte dell’adolescenza a Gallipoli in via Micetti, nell’abitazione della nonna paterna, Francesca Pedone, vedova del nonno Ernesto, “una vecchia dai capelli lunghissimi e belli, però bianchi, morti”, e dove assaporò, troppo presto, ad 11 anni, il dolore per la perdita del padre Emanuele, un alto ufficiale di fede fascista, morto a 49 anni, il 28 giugno 1947. Una fanciullezza non proprio spensierata, oppressa dalla eccessiva severità del padre e dal carattere autoritario della nonna. Gli erano di consolazione solo la madre, Vera Gaeta, napoletana, donna energica e positiva, figlia di un ammiraglio, ed il fratello maggiore Ernesto..
Momenti di pace li assaporava quando si allontanava dalla sua abitazione per recarsi in chiesa dove “in un’atmosfera di oscurità e di lumini ardenti, di ombre e di stucchi dorati, di profumi, di fiori, di persone assorte”, trovava il “piacere dei sensi”; di spensieratezza quando trascorreva qualche ora con gli amici nei locali dell’Associazione scoutistica, che aveva la sua sede nel Palazzo vescovile, o nei campeggi estivi che la squadriglia scoutistica degli “Elefanti” (egli era il caposquadriglia) organizzava. E proprio nella sede degli scout io, un po’ più piccolo di lui (ero lupetto), l’ho conosciuto, negli anni quando anch’io facevo le mie prime esperienze di vita associata, ispirata ai principi di democrazia e solidarietà..
Dopo qualche anno, con la madre ed il fratello maggiore Ernesto si trasferì a Roma e nel 1951 iniziò a frequentare, assieme al fratello, a Napoli, il liceo classico al Collegio militare della Nunziatella, dove per gli orfani di militari l’educazione era gratuita..
Ben presto si accorse di non aver alcuna propensione per la vita militare. Nella scuola “l’obbedienza obbligava fisicamente a piegarsi, a sottostare, ad eseguire meccanicamente il cerimoniale marziale che impegna solo il corpo. […]. Non era permesso manifestare emozioni, dubbi esitazioni, slanci di tenerezza, bisogno di protezione. […]. Il valore supremo era l’esteriorità”..
Allora sentì “il bisogno di sentirsi libero, come avviene quando si ha diciassette anni, di dissentire e negare tutto quello che ti tiene vincolato geograficamente, culturalmente, socialmente”. Era il rifiuto della cultura militare che egli definisce “cultura della corrosione”. Crebbe in lui “la voglia di non integrar[si], di non radicar[si], di non buttare l’ancora nel porto, ma evadere, scoprire cosa ci fosse fuori, rimanere estraneo”..
“Questo desiderio di estraneità divenne destino” quando, nel 1954, a 17 anni, dopo la licenza liceale, lasciò l’Italia e in autostop raggiunse Copenaghen e da lì Stoccolma. A 18 anni si spostò in Norvegia, ad Oslo, dove lavorò come lattoniere e dove fece il modello al pittore Willi Mildelfart. Qui conobbe e frequentò alcuni giovani, che avevano partecipato alla Resistenza contro i tedeschi, che lo ”contagiarono con il sogno di una società giusta e senza sfruttati” e gli trasmisero “il piacere per il superfluo necessario”. Nel 1956-57, sulla petroliera norvegese Talabot, che lo portò come mozzo di macchina in Africa, Asia, America Latina e America del Nord, scoprì “la concretezza dei principi filosofici di Marx ed Eraclito”. Successivamente nell’Estremo Oriente ed in Africa “si ubriaca di musica e di immagini”..
Nel 1957 ritornò in Norvegia. Ad Oslo si iscrisse all’Università (nel dicembre del 1965 si laureerà in lingua norvegese e francese, e in storia delle religioni); di giorno lavorava come saldatore e di sera seguiva i corsi universitari. Qui frequentò un gruppo di giovani che avevano fondatoo Mot Dagg (Verso il giorno), un movimento di orientamento marxista, che successivamente fu attivo nel SOSTUD, Socialistisk Studentlag, l’organizzazione studentesca del partito socialdemocratico. In questa organizzazione egli diventò abbastanza popolare poiché era “molto più a sinistra di loro” e per la sua “fede nell’arte come strumento di evoluzione degli operai”..
Decise di studiare regia ma in Norvegia non esistevano scuole per registi. Dopo che, ad Oslo, vide il film del regista polacco Andrzej Wajda,, Cenere e diamantii, decise di andare in Polonia. Dopo un soggiorno di sei mesi in un kibbuz in Israele, ottenne, dal Ministero degli Esteri italiano, una borsa di studio per studiare regia a Varsavia. Nel gennaio del 1961 sbarcò in Polonia, ”nella terra promessa, nella terra di cenere e diamanti", “con la testa piena di sogni e con il fermo proposito di diventare regista teatrale”..
Nella Polonia comunista di Gomulka, dove la censura chiudeva un occhio, la vita culturale e, in particolare teatrale, era fiorente e seguita con attenzione in tutta Europa. Barba seguì i corsi di regia presso l’Università di Varsavia e si immerse subito nell’ambiente artistico-letterario della capitale, dove conobbe e frequentò scrittori, poeti, artisti ed attori..
Ad Opole, una cittadina operaia della Slesia, incontrò Jerzy Grotowski che dirigeva il Teatr 13 Rzedòv (il nome era dovuto alle tredici file di poltrone), il cui repertorio era composto di autori d’avanguardia, come Cocteau o Majakovskij oppure di classici sul tipo Byron o l’indiano Kalidasa..
Con Grotowski, Barba iniziò “a tessere la ragnatela della [loro] relazione tendendola sopra un abisso di forze oscure e luminose - nostalgie, necessità e certezze. Una zona interiore alla quale si possono dare nomi differenti: viaggio nel profondo della propria dimora o volo al di fuori di essa”..
Egli, interrotti gli studi alla scuola di teatro di Varsavia, divenne assistente del Grotowski. Alla fine del gennaio del 1962 si trasferì ad Opole: tra i due s’instaurò “un rapporto misurato, amabile e solidale”, tra “il vecchio Lama e l’adolescente Kim”; e Barba divenne il “compagno privilegiato” del regista polacco..
Il soggiorno polacco restò per lui la “svolta della sua vita”, anche se all’inizio non “era per niente consapevole di partecipare ad una rivoluzione del teatro e di seguire il condottiero di un’epopea artistica”, e spesso vedeva “sfumare la sua certezza” che quello a cui assisteva e partecipava servisse alla sua futura carriera..
Ben presto, però, si identificò “emotivamente e intellettualmente nell’universo delle idee e del lavoro di Grotowski”, ed ogni altra forma di teatro gli sembrò “il figlio di una vergine sterile scolpita nella pietra, magari bellissimo, ma senz’anima”; e “quel piccolo teatro per lui diventò “tutt’insieme focolare, avventura, passione, religione”, divenendo “una sfida permanente, un’ossessione, una necessità”..
Così dal Grotowski imparò “a resistere, a opporre resistenza allo spirito del tempo, a non far[si] spezzare la schiena e a tenere in vita la scintilla che, pur nascosta in una lontana provincia [Opole], avrebbe appiccato il fuoco a dieci, cento, mille altre persone”..
Gli anni passati ad Opole nel Teatr 13 Rzedow gli “fecero incorporare una visione del teatro e un modo di viverlo intellettualmente ed emotivamente, come tecnica e come aspirazione”, gli “fornirono una terminologia con la quale riusciv[a] a dialogare con [se] stesso e con i [suoi] attori, una lingua che era [sua], [loro], personalissima e fugace, che scavalcava le categorie abituali ed ovvie dei discorsi sul teatro”..
Ben presto in lui si radicarono le certezze che “il teatro è costituito di radici che germogliano e crescono in un luogo ben preciso, ma è anche fatto di semi portati dal vento, seguendo le rotte degli uccelli”; che “i sogni, le idee e le tecniche viaggiano con gli individui, e ogni incontro deposita polline che feconda”; che “i frutti maturano dalla fatica caparbia, dalla necessità cieca e dallo spirito di improvvisazione e contengono semi di nuove verità ribelli”..
Nel 1963, da luglio a dicembre, compì un viaggio in India accompagnato da Judy Jones. Nel Kerala, a Cheruthuruthy, studiò il teatro Kathakali, i cui spettacoli lo sorpresero e lo ammaliarono. Egli al suo ritorno ad Opole scrisse le sue osservazioni sul Kathakali e adattò alcuni “esercizi” per il training degli attori del Teatr-Laboratorium 13 Rzedòw..
Nell’aprile del 1964, non potendo più rientrare in Polonia dalla Norvegia, dove si era provvisoriamente recato, perché “persona non grata”, si stabilì ad Oslo dove il 1° ottobre 1964 fondò, con gli attori norvegesi Else Marie Laukvik,Torgeir Wethal,Tor Sannum, Anne Trine Grimmes, l’Odin Teatret e dove, un anno dopo, fondò la rivista “TTT”, “Teatret Teori og Teknikk” che pubblica fino al 1974 numeri monografici e volumi.. Nel febbraio dello stesso anno era uscito in Italia (editore Marsilio) il suo Alla ricerca del teatro perduto..
Il primo spettacolo dell’Odin Teatret e prima regia di Barba,, Ornitofilenee (Gli amici degli Uccelli))(1965), da un testo allora inedito di Jens Bjorneboe, fu rappresentato in uno spazio teatralmente non convenzionale, simile ad un’aula di tribunale dove gli attori (erano solo quattro, quelli che avevano resistito di un gruppetto di partenza di undici) recitavano in mezzo al pubblico, “trasformandosi continuamente in personaggi diversi e passando dal registro lirico a quello tragico, fino al grottesco, attraverso una ricca espressione vocale e gestuale”. Barba restò “stupito che la rappresentazione facesse un effetto così inaspettatamente forte sugli spettatori”, e affermò che “lo spettacolo sembrò dimostrare tutte le inusitate possibilità espressive dell teatro poveroo”..
L’autorevole critico teatrale danese Jens Kruuse, sull’importante quotidiano Jyllands-Posten, scrisse di aver vissuto “un’esperienza incredibilmente avvincente”; che gli attori norvegesi dell’Odin Teatret “non recita[vano] affatto” ma “viv[evano] un’opera poetica”; che quello dell’Odin era “un teatro popolare, vivente, esistenziale, utile, con humor, clownerie, tragedia, umanità”..
Nel giugno del 1966, l’Odin si trasferì ad Holstebro, in Danimarca, una cittadina di 18.000 abitanti, nello Jutland occidentale. Il Comune, che aveva deciso di intraprendere una politica culturale per sfuggire al grigiore della provincia, aveva offerto un locale fuori città ed una sovvenzione annua di 15.000 dollari. In cambio il Barba aveva promesso di dar vita ad un “teatro laboratorio”: ill Nordisk Teaterlaboratoriumm.
Il teatro di Barba dopo un anno di permanenza nella cittadina danese scatenò numerose polemiche: molti s’interrogavano se valesse la pena di spendere denaro pubblico per “mantenere un’attività teatrale di nicchia così strana e incomprensibile”..
Gli amministratori di Holstebro resistettero alle polemiche e i numerosi critici, a distanza di molti anni, hanno dovuto constatare che “l’Odin Teatret è l’istituzione culturale che più di ogni altra ha marcato il profilo culturale di Holstebro”; che “l’Odin Teatret ha reso Holstebro una parte del mondo”; che “Holstebro, dal canto suo, ha restituito al teatro quell’ancoraggio, cioè tranquillità di lavoro e sicurezza, che è stato un presupposto perché continuasse a svilupparsi”..
Col passare degli anni l’Odin Teatret diventò sempre di più il centro di un’importante attività di seminari internazionali, “i seminari interscandinavi”, dedicati ai professionisti del teatro (si terranno tutti gli anni fino al 1976))
Ogni anno l’Odin organizzava due seminari teatrali internazionali; uno di una settimana, in primavera, intorno ad un tema specifico (commedia dell’arte, il linguaggio scenico, lo scrittore ed il teatro di gruppo, teatro indonesiano, teatro giapponese); l’altro, di due-tre settimane, in luglio, sul training. Dal 1966 al 1969 vi partecipò il Grotowski. Vi parteciparono, come maestri, fra gli altri, Ryszard Cieslak, Dario Fo, Etenne Decroux, Jacques Lecoq, i fratelli Colombaioni, Charles Marowitz, Otomar Krejka, i maestri del teatro balinese, i maestri delle forme classiche di danza e di teatro Shanta Rao, Krishanam Nambudiri, Sanjukta Panigrahi, Ragunath Panigrahi, Uma Sharma..
I seminari erano per quelli dell’Odin una possibilità di conoscere il lavoro di altri importanti artisti ed occasione per riunire amici e simpatizzanti. Inoltre si promuoveva “un’attività che nessun’altra istituzione svolgeva in quei tempi in Danimarca, giustificando la denominazione di ‘laboratorio’”. Si inaugurava, così, una tradizione che durò fino alla metà degli anni ’70..
Dopo aver rappresentato, nel 1967,, Kasparianaa, da un testo scritto da Ole Sarvig, l’Odin Teatret raggiunse fama internazionale nel 1969 conn Feraii, da un testo scritto da Peter Seeberg..
L’irrompere dii Feraiifu “uno dei segnali più espliciti dei processi teatrali in gioco, che affidavano in fondo allo spettacolo la missione di riaggregare la comunità attorno ai suoi ‘archetipi’ - remoti e contemporanei - al fine di ritrovare un momento collettivo ed emotivo che ridesse senso ad una comunicazione stanca, senza sintonie, senza emozioni, e nuova vita a quel teatro da Peter Brook ormai classicamente definito o bollato come ‘mortale’”..
L’inizio degli anni Settanta segnò per l’Odin Teatret il passaggio dal periodo della “stanza”, dello “spazio chiuso”, della “clausura”, dello “spazio scenico di concentrazione” ovvero della sperimentazione svolta all’interno del laboratorio e degli spettacoli per non più di 60/70 persone, al periodo dello “spazio aperto” della fase dei baratti interculturali..
Ha inizio così l’esperienza di migrazione e viaggio che ha avuto una profonda influenza sul lavoro e sulla filosofia del gruppo che, nel tentativo di trovare un altro uso del teatro in contesti differenti, ha sviluppato la pratica del “baratto”. Il gruppo, cioè, “si propone con un suo training di spettacoli di strada, improvvisazioni e la comunità ospite - in uno scambio/baratto fra culture - risponde con proprie danze, musiche, canzoni, letteratura orale, cerimonie tradizionali e persino religiose”..
Ecco l’Odin alla Biennale di Venezia, il 2 ottobre 1972, conn
Min fars husMin fars hus (La casa del Padre)): trattava della vita e dell’opera del Dostoevskij e si presentava con una frase dello scrittore russo come epigrafe. Dopo le repliche a Roma nel gennaio del 1974, l’Odin portò lo spettacolo in Sardegna (San Sperate e Orgosolo), dove gli attori nordici si esibirono “con disponibilità, ma non senza difficoltà, di fronte ad un pubblico disabituato al silenzio, estraneo al circuito dei festival o delle università”, e dove “gli spettacoli si conclusero con un grande happening”. Barba, fra il 1974 e il 1975, nel Salento, ed in particolar modo a Carpignano Salentino, in un ambiente in cui “bisognava rispettare sempre le leggi e le usanze del luogo”, pur tra “difficoltà dubbi e contingenti incomprensioni”, realizzò “la prima organica esperienza di baratti” mettendo in moto un processo che culmina con la l’offerta reciproca tra una comunità agricola ed un gruppo di attori. Accade così che attori di ogni dove fanno training nelle piazze, montano spettacoli in strada, improvvisano tra case basse e cortili. E dai sagrati delle chiese rispondevano gli ospiti con danze e musiche, canzoni e racconti, con cerimonie tradizionali e persino religiose. “L’atmosfera che si respirava era quella di un fitto scambio su una frontiera antropologica”. Attraverso le feste di baratto, si crearono ”singolari e inedite forme di aggregazione sociale, che travalicavano le divisioni di classe, di generazione, i pregiudizi”. La pratica del baratto di teatro caratterizzerà l’azione sociale dell’Odin anche negli anni successivi, accanto alle normali tournées. Il critico teatrale Per Moth su un numero della rivista danese “Rampelyset”, dedicato all’Odin Teatret, in un articolo intitolato I en virkelighed uden teaterr (In una realtà senza teatro)) scrive della profonda trasformazione dell’Odin, nel Salento, da teatro d’élite a teatro dal peculiare profilo “popolare”. E l’Odin confermerà la sua caratteristica di “teatro popolare”, nel febbraio 2005, nelle dimostrazioni di lavoro, che esso tenne a Torino, con gli anziani delle case di riposo, nell’ambito del progetto L’Odin per Torino, quando dimostrò “la capacità di valorizzare la vita comune; di incastonarla e santificarla in un clima di festa; di recuperare le esperienze personali e i materiali più correnti, dagli oggetti alla musica, ai ricordi e alle emozioni, con assoluta essenzialità, senza prolisse mediazioni intellettuali”. L’enclave teatrale dell’Odin, ormai, si presenta all’esterno con una doppia faccia: “gli spettacoli per pochi spettatori, ambienti raccolti; e gli spettacoli aperti, affollati, grotteschi. […]. Questo doppio binario, con un repertorio più vasto, caratterizzerà anche gli anni seguenti, diventerà anzi uno degli elementi costitutivi dell’Odin”..
Nel 1976 l’Odin Teatret partecipò al Festival internazionale di Caracas con lo spettacoloo Come! And the Day will be Oursass. Organizzò baratti ed incontri di lavoro e spettacoli nelle strade e con i suoi spettacoli visiterà nella Giungla del Venezuela gli indiani Yanomami..
Barba nel 1979 fondò l’ISTA, International School of Theatre Anthropology. Essa “non ha una forma rigida, è un’ambiente, una nebulosa. Il solo momento in cui assume forma definita è quando si realizzano le sue sessioni (chiamate “Università del teatro eurasiano). […]. Riunisce persone che fanno teatro provenienti dai paesi, dalle tradizioni e dalle specializzazioni più diverse. […]. Ciò che rende possibile l’incontro è un modo discorde di pensare e una comune voglia di porre domande al comportamento dell’attore”. Per dirla con uno dei motti utilizzati dal suo fondatore, l’ISTA è uno spazio-tempo in cui imparare ad imparare. La prima sessione si tenne a Bonn nl 1980 e durò un intero mese: vi parteciparono come maestri artisti da Bali, Taiwan, Giappone ed India. Barba in quell’occasione riscontrò negli attori e danzatori asiatici gli stessi principi che aveva visto all’opera negli attori dell’Odin Teatret. Molte altre sessioni si sono tenute in Italia, specialmente in Calabria..
Dal 1990 in poi, di sessione in sessione, si sono sviluppati dei veri e propri spettacoli con la regia di Eugenio Barba, ed un vero e proprio ensemble, che ha preso il nome di “Theatrum mundi”, i cui spettacoli sono eventi d’eccezione ai quali prendono parte assieme ai componenti dell’Odin Teatret numerosi maestri ed artisti di diverse tradizioni teatrali, diretti dal Barba..
Dopo aver partecipato al Festival di Caracas, nel 1976, Barba negli anni Ottanta portò l’Odin nei Paesi dell’America Latina (Perù, Colombia, Messico, Argentina, Uruguay, Brasile) che per lui “divenne un punto di orientamento essenziale per tenere deste le domande sul senso del [suo] fare teatro”..
Qui presentò spettacoli, baratti, tenne seminari ed incontrò enclaves teatrali che non facevano teatro “tradizionale” e neppure un “teatro d’avanguardia”, “gruppi quasi sempre autodidatti, non benedetti preliminarmente da quel rispetto che circonda chi entra in modo riconoscibile nell’arte teatrale”. Era il Terzo Teatro, una scelta esistenziale, che “altrove era minoranza” ma che in America Latina “occupava quasi l’intero paesaggio”..
Alcuni di questi gruppi teatrali latinoamericani, egli, nell’autunno del 1977, li aveva ospitati a Belgrado, dove aveva organizzato un Atelier del Teatro di Gruppo all’interno del Festival del Teatro delle Nazioni, e con essi aveva tenuto “uno spettacolo collettivo lungo un’intera giornata”. Nel presentarli parlò, per la prima volta, di “Terzo Teatro” che, come afferma, “non indica una linea di tendenza artistica, una ‘scuola’ o uno stile.. Indica un modo di dar senso al teatroo”. La condizione del Terzo Teatro è ricerca del senso che vuol dire “soprattutto personale scoperta dell mestieree”; e mestiere vuol dire “la costruzione paziente di una propria relazione fisica, mentale, intellettuale, emotiva con i testi e gli spettatori […]. Vuol dire comporre spettacoli che sappiano rinunciare all’usuale pubblico teatrale e sappiano inventarsi i propri spettatori. Vuol dire saper cercare e trovare denaro senza incarnare il valore del teatro previsto da coloro che per motivi economici, ideologici o culturali investono risorse per favorire lo sviluppo della vita teatrale; […] e solo per un piccolo resto è forza dell’ideale, spirito di rivolta”..
Negli anni Ottanta, che per Barba hanno rappresentato “un inverno che ha gelato molte esperienze sociali, politiche e teatrali”, l’Odin continua a fare il “’teatro povero’ con nessuna concessione alle mode, con gli stessi temi e in parte gli stessi carismatici attori”..
A partire dal 1980, il lavoro all’interno dell’Odin assume due ulteriori dimensioni: ai lavori di gruppo si aggiungono e si alternano linee individuali di ricerca. Agli “spettacoli nuovi”, preparati dal gruppo nel suo insieme, per pochi spettatori in ambienti raccolti, si aggiungono spettacoli dalle dimensioni più piccole realizzati dal lavoro indipendente di uno o due attori, i Kammerspiele, che a differenza degli “spettacoli nuovi”, che vengono rappresentati per 3-4 anni, restano in repertorio a lungo così come le dimostrazioni-spettacolo..
Sono degli anni Ottanta ill Vangelo di Oxyrhincuss (1985) ee Talabott(1988) che vengono presentati in periferia, dove l’Odin viene a contatto con “un pubblico più differenziato rispetto a quello omogeneo dei festival e delle élite delle grandi città”, mantenendo vivo il suo fondamentale impegno di “far provare esperienze” allo spettatore, “ricostituendo un livello radiante per quanto ‘invisibile’ del teatro, sul quale la vita dello spettacolo è fluita”..
A partire dal 1991, l’Odin organizza ad Holstebro, ogni tre anni, una “settimana di festa” (Holstebro Festuge), ospitando gruppi ed artisti stranieri, collaborando con i gruppi e le associazioni culturali della città, intrecciando teatro, musica, danza, arte figurativa, conferenze e dibattiti sull’interculturalità..
Ogni anno, invece, organizza nella propria sede una “Odin Week”, durante la quale gruppi di 30-40 persone provenienti da diversi paesi vengono immessi nella vita dell’Odin, assistono a tutti gli spettacoli, partecipano alla vita quotidiana del teatro, svolgono lavoro pratico con gli attori e con Eugenio Barba..
Gli anni Novanta conn Kaosmoss(1993) e conn Dentro loo scheletro della balenaa(1997), l’Odin torna sui temi indissolubilmente legati alla propria esperienza, fitta di contatti con l’Europa dell’Est, l’America latina, il Terzo Mondo: “la violenza, la crudeltà, l’assurdo della storia, nella quale le grandi idee si capovolgono nell’esatto contrario, nella ferocia delle dittature, nel furore delle stragi”..
Segue nel 19988 Mithoss, dedicato al regista uruguayano Atahualpa del Cioppo, tra i fondatori del teatro moderno dell’America latina, che “è la biografia impietosa” del XX secolo: uno spettacolo “su valore e morte del mito […], che “è soprattutto unn ritualee, meglio un graffiante requiem del Novecento, le sue ideologie, le rivoluzioni, le promesse, le ansie del progresso”..
Lo spettacolo ci mostra “il carnaio dell’umanità, un terreno da cui fioriscono mani mozzate, come anemoni; l’imbroglio degli stregoni del potere; il sacrificio dei ‘sommersi’; la grottesca desolazione dei ‘salvati’”..
Dei primi di ottobre del 2004 è ill Sogno di Andersenn, presentato a Holstebro in occasione della celebrazione del quarantennale dell’Odin Teatret. Questo spettacolo prende lo spunto da una biografia e dalla dimensione creativa di un grande personaggio (Hans Christian Andersen) che rappresenta un mito nazionale, “un simbolo di una Danimarca gentile e bambina”. “In questo Sogno - scrive Franco Perrelli” - che riguarda il nostro mondo suggerito per allusioni, quasi per cenni, senza enfasi profetiche, c’è un malinconico sotterraneo presagio di apocalisse”..
Nel 2006 vengono presentatii Don Giovanni all’Infernoo eUr-Hamlett.
Inn Don Giovanniila figura del grande libertino viene riletta nella sua sostanza di archetipo, non solo attraverso le fonti lasciate dal suo primo creatore Tirso de Molina, ma anche interrogando il Don Juan aux Enfers di Charles Baudelaire. Barba ne guarda “l’originaria sostanza scellerata” per mostrarla senza le mediazioni operate dalla letteratura, che ne ha fatto un gioiello d’arte “incapace di fare paura”. L’Odin mette in rilievo “l’universalità del personaggio radicata in miti ancestrali, e nello stesso tempo la modernità evocata dal suono delle musiche di Mozart, dalla loro energia destabilizzante”. “Con un tuffo nel mistero che unisce amore e morte, commedia e tragedia, inganno e realtà, lo spettacolo, a tratti gioioso, malinconico e feroce, pone inquietanti interrogatoivi sull’uomo”..
Ur-Hamlettmette in scena un Amleto arcaico e nostro contemporaneo, cupo guerriero di fattezze afro-brasiliane. Dice Barba ”La storia del capo vichingo spregiudicato di nome Amlethus fu raccontata intorno al 1190 in latino da Saxo Grammaticus, primo scrittore in Danimarca, che ispirò Shakespeare. E’ a lui che ci siamo rifatti”. Hamlet è un signorotto dello Jutland che nella lotta per il potere si finge pazzo per non venire ucciso: un professionista della violenza, “esperto nell’arte di far fuori gli avversari con stratagemmi e malefici, un capo scaltro, un tirannicida che si fa tiranno”. Dice ancora Barba “Consideroo Ur-Amlettuno spettacolo sulla Storia. Il Castello di Hamlet assediato non di fantasmi dell’aldilà ma dal suo sottosuolo, dai ratti portatori di peste che emergono come miasmi da strati oscuri da una società pulita solo in apparenza. Sono loro gli invasori, i poveri affamati, in cerca d’asilo, che arrivano da fuori”. Così lo spettacolo si presenta come un rituale visionario, drammatico, grottesco, una babele di ritmi, musiche, lingue; “un dramma che scaturisce dalle viscere oscure dei tempi e riesce ad essere contemporaneo grazie alla babele dei linguaggi, alle suggetioni cosmopolite messe in campo”..
Nel 2008 ill The Marriage of Medeaa. E’ uno spettacolo itinerante che riunisce il nucleo storico dell’Odin Teatret, il gruppo balinese Gambuh Desa Batuan Ensemble, Augusto Omolù e Cleber Da Paixao e un gruppo di attori di varie nazionalità, che attraversano i vari sobborghi e periferie di una città, dando luogo a una successione di baratti culturali con associazioni, istituzioni e minoranze etniche del luogo, i cui costumi e riti si perdono nel contesto metropolitano, mirando “ad unire queste dinamiche di convivenza e di relazioni sociali, rendendo la frammentata realtà urbana teatrale attraverso la reciprocità”..

Questi i numerosi riconoscimenti che il mondo intero ha attribuito ad Eugenio Barba::

 - Festival Premio Roma, Italia (1969)..
 - BITEF Grand Prix, Iugoslavia (1974)..
 - The Danish Academy’s Kjeld Abell Award, Danimarca (1980)..
 - The Mexican Theatre Crutics Prize for best foreign production, Messico (1984))
 - BITEF Grand Prix, Iugoslavia (1986)..
 - Diego Fabbri Prize, Italia (1986)..
 - Doctor Honoris Causa, University of Arhus, Danimarca (1988)..
 - Prize “Gallo de Habana” Casa de Las Américas, Cuba (1994)..
 - Reconnaissance de mérite scientifique, University of Motreal, Canada (1995)..
 - Cittadinanza onoraria di Carpignano Salentino, Italia (1996)..
 - Cittadinanza onoraria di Pontedera, Italia (1997)..
 - International Prize “Luigi Pirandello”, Italia (1997)..
 - Doctor Honoris Causa , Università di Bologna, Italia (1999)..
 - Doctor Honoris Causa University of Ayacucho, Argentina (1999)..
 - BITEF Grand Prix, Iugoslavia (1999)..
 - Doctor Honoris Causa, Istituto Superior de Artes, Havana (2002)..
 - Doctor Honoris Causa, Università di Varsavia, Polonia, (2003)..
 - Doctor Honoris Causa, Università di Plymuth, Gran Bretagna, (2005)..
 - Doctor Honoris Causa, Academyfor Performing Arts, Hong Kong (2006)..
 - Doctror Honoris Causa, Instituto Universitario Nacional del Arte (IUNA), Buenos Aires, Argentina (2008)..

Il 19 aprile del 2000 dall’Università di Copenaghen gli fu conferito il prestigioso Premio Sonning. E’ il più prestigioso premio scandinavo dopo il Nobel. Esso, ogni due anni, viene assegnato ad una personalità che abbia contribuito al progresso della cultura europea. Tra gli altri lo hanno ricevuto Winston Churchill, Albert Schweitzer, Laurence Olivier, Danilo Dolci, Karl Popper, Hannah Arendt, Dario Fo, Simone de Beauvoir, Ingmar Bergman, Vàclav Havel, Gunter Gras..
In quella occasione il regista pronunciò una straordinaria allocuzione. Un discorso che è sintesi e commento di un’esperienza impareggiabile e che si pone come ponte tra un glorioso passato ed un futuro aperto ai giovani per raggiungere i quali gli spettacoli concepiti dall’Odin “si debbono trasmutare in libri che ardono” chiamando lo spettatore a “risolvere in prima persona l’enigma di uno spettacolo-sfinge pronto a divorarlo”. All’attore il compito di dover “aprire gli occhi dello spettatore con la stessa delicatezza di quando chiudi gli occhi di una persona appena morta” nella consapevolezza di non perdere mai un’ideale tensione senza dimenticare “che un buono spettacolo non migliora il mondo, e che un cattivo spettacolo lo rende più brutto”. E il Barba aggiunse: “la nostra origine è stata l’ombra, ed è nell’ombra che preferiamo vivere. E’ nell’anonimo lavoro quotidiano che incontriamo la sfida sempre uguale che mette alla prova l’intensità e la credibilità delle nostre motivazioni. Siamo venuti dal buio e auguriamoci che quando scompariremo nel buio il nostro ultimo sogno sia come il primo, quello che avevamo da giovani: essere come i nomadi San del deserto Kalahari che si muovono in direzione dei lampi, perché dove c’è tempesta, c’è acqua, vegetazione, vita”..

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