Filippo Briganti, pensatore solitario,
nel bicentenario della sua morte (1724-1804)
 

Nel Regno di Napoli i fermenti delle idee illuministiche fruttificarono nella esplosione feconda di nuove dottrine, nella elaborazione e divulgazione dei principi sulla economia e sul commercio, sul diritto e sulle istituzioni civili, che alcuni studiosi assimilarono dalla cultura inglese, olandese e francese, e svolsero con acutezza e originalità di pensiero.
L’Illuminismo napoletano, sviluppatosi sul tronco di una cultura storica, filosofica, giuridica ed economica già in fase di rinnovamento fin dalla fine del Seicento, ebbe, intorno alla metà del secolo, il suo centro di irradiazione nella scuola di Antonio Genovesi, ed ebbe contatti stretti con la cultura francese, attraverso uomini come Ferdinando Galiani e Domenico Caracciolo, e contatti ancor più stretti con tutte le altre correnti illuministiche italiane. Dalla scuola del Genovesi, che pose con chiarezza il problema di un rinnovamento, non solo economico, ma anche educativo della società meridionale, vennero uomini come Gaetano Filangieri, Giuseppe Maria Galanti, Giuseppe Palmieri, Mario Pagano, Melchiorre Delfico, molti dei quali collaborarono attivamente all’opera riformatrice della monarchia borbonica soprattutto nel periodo tanucciano e più ancora nel successivo fino al 1792 circa. In genere gli illuministi napoletani furono di idee moderate: essi sostenevano soprattutto la necessità di abolire la feudalità nel suo aspetto giuridico. Riguardo al problema della terra, sostennero col Filangieri l’opportunità di trasformare i feudi in libere proprietà dei baroni soggetti all’imposta fondiaria e, col Palmieri, proposero l’abolizione degli usi civici e la censuazione dei demani: proposte nel complesso assai caute, rispondenti essenzialmente agli interessi della borghesia terriera e della stessa nobiltà, cioè delle classi dalle quali quegli uomini uscivano.
Le correnti fisiocratiche, operanti già in Francia ed anche a Napoli, fermentarono con suggestiva vitalità e passarono da Genovesi alla sua scuola metropolitana e provinciale dando origine a due correnti: l’utopistica che sfocerà nel giacobinismo meridionale e la provinciale legata ai problemi concreti; ambedue, però, si posero come fine “la felicità” come “bene comune”, come “pubblica utilità”. Era un concetto di “felicità”, scrive Aldo Vallone (Tommaso e Filippo Briganti e altri minori) “che non propone virtù cristiane, né instaura simboli pagani”, ma “dà storicamente senso di un nutrimento nuovo di idee e misura di un diverso reale, politico sociale e civile: congloba, infatti, in modi schietti e intransigenti, il carattere laico degli illuministi napoletani, che li rese […] di rado apertamente ostili, ma assai indifferenti o tiepidi verso la religione tradizionale”.
Non mancarono in Terra d’Otranto individualità spiccate di scrittori di economia, di filosofia, di politica, di diritto che, in virtù di quel fermento di nuovi principi, si levarono, spesso con maggiore energia del maestro, a proporre riforme, a chiedere la fine di abusi e di errori, a sostenere la causa di una migliore produzione e distribuzione dei beni nell’interesse dei ceti inferiori della popolazione. Essi, come singoli e come gruppo, affrontarono i problemi della loro terra con opere che spesso uscirono dall’ambito provinciale, ma tutte efficaci sia che si rivolgessero allo studio teoretico, sia che si applicassero alla pratica educazione della nuova generazione, tutta volta alla soluzione dei problemi che ciascuno aveva dinanzi, cioè problemi commerciali ed agricoli, o anche economici e finanziari.
L’Illuminismo salentino, scrive il Vallone, “si nutre, come già arte letteratura scienze giuridiche e filosofiche e così via, del pensiero napoletano a Napoli, ma poi si restituisce alla propria terra e alle condizioni di quel viver civile e ai temi che le sono propri”. Se l’Illuminismo napoletano e salentino, egli continua, sono accomunati dal concetto di promozione umana, nel primo è prevalente “l’idea-proposta di civilizzazione universale e democratica, nel secondo l’ufficio di missione, l’opera ch’è pur sempre un segno di affrancamento civile e popolare”.
E’ la piccola borghesia fatta di avvocati, insegnanti e proprietari, classe emergente nella seconda metà del Settecento, che accomuna la dottrina, appresa a Napoli, con l’esercizio professionale in provincia, con l’amministrazione diretta dei propri beni. Così nel Salento l’Illuminismo dai solenni principi generali si cala nella scomoda realtà del contesto socio-economico, assumendo “un aspetto più globale e popolare: globale perché tenta d’investire, a livello di classe borghese, cultura generale e vita minuta, arte e professioni, pratica forense e medica e meditazione filosofica e scientifica; popolare perché avvia ad un coinvolgimento delle classi sociali, nobiltà agricola, borghesia operativa e ceto rurale”.
Non sono solamente Tommaso e Filippo Briganti, Cosimo Moschettini, Giuseppe Palmieri, Giovan Battista Gagliardi, Giovanni Presta, per citare solo qualcuno tra i più famosi, che parteciparono attivamente a questo movimento culturale, ma anche prelati come Antonio Maria Piscatori, Serafino Brancone, Agostino Gervasio, vescovi di Gallipoli, Alfonso Sozy Carafa, vescovo di Lecce, Annibale De Leo, arcivescovo di Brindisi, Giuseppe Capecelatro, arcivescovo di Taranto, Alessandro M. Kalefati, arcivescovo di Oria.
Alcuni pensatori salentini fissarono la loro residenza nella capitale, esercitarono le professioni, frequentarono i colti salotti e scrissero su giornali e riviste, altri rientrarono da Napoli nei luoghi natii “dove restano diffondendo ciò che hanno visto ed imparato e fanno gruppo e qualche volta scuola […] come accade splendidamente in Gallipoli con i Briganti”.
Tra coloro che rientrarono dalla capitale vi è Filippo Briganti che restò chiuso nel suo palazzo a leggere, meditare e filosofare. Egli ebbe i natali a Gallipoli, “una delle più ridenti contrade del reame di Napoli”, il 2 dicembre 1724, da Fortunata Mayro, e Tommaso Briganti, “il cui nome cotanto suona fra gli annali del Foro”, […] entrambi di nobil progenie, e di ricchezze forniti”. Il primo insegnamento lo ebbe nell’ambito famigliare: Don Quintino Mastroleo di Alliste, che godeva fama di letterato e di filosofo di grande dottrina, precettore e cappellano della famiglia De Tomasi, insegnò a Filippo le prime nozioni di greco, latino, retorica, scienze e filosofia; mentre dal padre Tommaso, acquisì dimestichezza e amore per le materie legali. Molto egli apprese durante le conversazioni che quotidianamente si tenevano nel palazzo paterno, dove aveva sede l’Accademia dei Sonnacchiosi che riuniva le menti più colte della città e dei paesi vicini. Nel 1842 raggiunse Napoli per perfezionarsi nella scienza del diritto ma, “cedendo all’impeto del bollor giovanile”, abbandonò gli studi per intraprendere la vita militare. Le forti pressioni del padre lo costrinsero ad abbandonare il suo progetto ed a laurearsi in legge il 4 novembre 1745, e, dopo aver superato l’esame l’esame ad Judicatus Magnae Curiae Vicariae, il 6 dicembre dello stesso anno rientrò a Gallipoli. Qui egli dedicò interamente la sua esistenza alla professione legale, al bene della città, ricoprendo spesso cariche pubbliche, ed agli amati studi di letteratura, di filosofia, di diritto, di storia politica ed economica. “La caccia dei falconi, le arti cavalleresche, il domare e rendere maestoso quasi sensibile e parlante un puledro destriere, formavano nei suoi verdi anni il solo e breve diporto, con cui sollazzar solea lo spirito, dopo le profonde occupazioni della letteratura”. Il 21 gennaio 1748, sposò, con dispensa pontificia, nella parrocchia di Racale, Caterina Briganti, figlia di Onofrio Briganti. Morta Caterina, il 21 gennaio 1760, dopo quattro mesi di malattia, Filippo “col consenso del padre e di tutta la casa concluse sponsali con la Sig.na Teresa Rocci Cerasoli”. Le nozze furono celebrate dal fratello Ernesto, l’8 dicembre 1761, dopo che ebbe restituito i beni dotali di Caterina al fratello Diego, suo erede. Né dal primo né dal secondo matrimonio nacquero figli.
In questi anni Filippo si avviò all’esercizio della professione e delle cariche pubbliche e si conquistò potere e larghe simpatie. Il 1° settembre 1746 fu eletto “coggitore della Real Corte”, e nel 1752, 1757, 1775, 1780, 1781, 1793, 1794 Giudice della Real Corte. Occupò per molti anni, dopo la rinuncia del padre, il posto di decurione nel Parlamento civico, e negli anni 1763-64 fu eletto sindaco. “Nel 1764 - scrive Bartolomeo Ravenna - anno funesto di penuria nella provincia e nel Regno, trovandosi egli Sindaco di Gallipoli, si adoperò con somma energia alla tranquillità della sua Patria in una così difficile circostanza. Impiegò la forza de’ suoi talenti, e molto denaro del suo patrimonio per l’annona de’ grani necessarj a questa popolazione, onde allontanarne la fame. La di lui condotta, e le sue beneficenze rimasero cotanto impresse negli animi de’ cittadini, che si rammentano ancor oggi con quei sentimenti di tenerezza, e di gratitudine che formano l’elogio maggiore dell’uomo benefico alla Patria”. “Ancorchè oppresso dalle pubbliche cure sostenendo cariche ed impieghi - continua il Ravenna -, esercitando la professione delle leggi, non alterò mai il metodo de’ suoi studj in una indefessa applicazione, e lettura. Compresero tutti che meditava arricchire colle sue produzioni il mondo letterario. Passava vegliando le intere notti, sempre coltivando con ogni cura il genio, che l’animava per istabilire i materiali nell’edificio delle tante applaudite opere sue. Sollevava intanto il suo spirito conversando con quei pochi, culti e stimabili amici, che viveano alle lettere, tra i quali vi furono Monsignor Fra Agostino Gervasio, Giovanni Presta, Don Quintino Mastroleo, e ‘l Canonico D. Pasquale d’Aloysio”.
Ciò che lo attirava non era tanto la notorietà attraverso l’attività di avvocato e di cittadino investito di cariche pubbliche, quanto la dedizione incessante agli studi, per mezzo dei quali acquistò una cultura non comune: “Studii e letture - scrive Carlo Massa - che non furono futile passatempo, e da cui seppe trarre profitto nell’esporre le dottrine giuridiche ed economiche che a lui parvero vere e giuste”. Certo, la sua cultura risentì in parte dello stato d’isolamento in cui visse (rinunziò all’incarico di ambasciatore in Inghilterra ed a quello di segretario del principe di Caramanico, vicerè in Sicilia): infatti essa fu un’erudizione acquistata attraverso il libri della fornita biblioteca di famiglia, ma continuamente aggiornata ed arricchita attraverso le relazioni epistolari con studiosi salentini e napoletani e con i colloqui degli amici che spesso dalla capitale giungevano a Gallipoli per incontrarlo e che gli permisero, “in una piccola città di provincia, lontano dai grandi centri intellettuali del tempo”, di tenersi al corrente dei grandi temi culturali.
Con la pubblicazione del’Esame analitico del sistema legale, “pubblicato a Napoli con la data del 1777, ma in realtà uscito l’anno successivo”, e dell’Esame economico del sistema civile, “che porta la data del 1780, però anch’esso apparso un anno dopo”, il Briganti si fece conoscere ed avviò relazioni con letterati viventi in Napoli ed altre città”.
La notorietà che acquistò con la prima delle due opere gli procurò nel gennaio 1779 l’ingresso nella Regia Accademia delle Scienze e delle Lettere come “socio provinciale”, su proposta del presidente Principe di Francavila che lo definì: “studioso cultore delle scienze, delle arti e delle belle lettere; […] emulo dei sublimi voli di quell’immortale Montesquieu […]; autore che senz’audacia e senza avvilimento si è in pubblico presentato sulle stesse tribune, che pareano tutte proprie de’ Mably, degli Helvezj, de’ Linguet, e de’ Beccaria, ora sotto la spoglia di loro amico, ora col carattere di avversario, e sempre col difficile merito di non invido rivale, e di filosofo ingenuo”. Non meno laudativa fu la relazione del censore, canonico Alessandro Maria Kalefati, che così si espresse: “Voi avete portato la gloria della nostra Puglia, e quindi del nostro Regno, e della nostra Italia, al grado di quella dei primi Sapienti dell’età vetusta, e della nostra”.
Ma fu Gaetano Filangieri, autore della Scienza della Legislazione, trattato che ebbe rapida e vasta risonanza in Italia e fuori, che, avendo ricevuto in omaggio la seconda opera, gli rivolse, il 24 luglio 1781, il più grande elogio: “[…] L’autore celebre dell’Esame analitico del sistema legale e civile può piuttosto aver compatita, che ammirata la Scienza della legislazione. Io sono stato uno dei primi suoi ammiratori per la prima parte della dotta e profondissima sua opera; ma la seconda, che avrebbe potuto darmi infiniti lumi, per la parte politica ed economica della Legislazione mi pervenne quando io avevo pubblicato il secondo tomo della mia opera. Dopo aver avidamente letto e l’una e l’altra, io trovo una casta erudizione, unita ad un profondo pensare, ed una minuta discussione unita ad una grandezza così difficile a conservarsi in un Esame analitico. Faccia Iddio, che la sua penna non voglia stancarsi nel promuovere la gloria della nostra Nazione”. Non furono formali e fugaci convenevoli poiché “per taluni concetti notevole era la consaguineità, nella contemporaneità, con le ‘riflessioni’ del Filangieri”.
“L’Esame analitico del sistema legale, - scrive Giovan Battista De Tomasi (Elogio storico di Filippo Briganti) -, sublime lavoro del nostro Briganti, che servì di fanale alla Scienza della legislazione del Cavalier Filangieri, che nella patria di Smith ha fatto cotanto strepito, e cotant’edizioni ha godute, altro non è che una copiosa raccolta di penetranti ricerche metafisiche sul codice della ragione, moderatrice benevola degli atti facoltativi dell’uomo, il quale piantato nel centro della magnificenza dell’Universo, e dotato dell’uso di questa eroina, viene dall’analisi istruito com’egli di questa ragione debba servirsi; perché la Natura l’abbia dotato di tale facoltà, e sino a qual segno ne debba far uso”.
Nell’Esame analitico, annota il Vallone, “il Briganti dà un affresco dell’uomo dallo stato di natura allo stato di società. E’ un arco intenso e ampio entro cui si muovono i problemi più vari del tempo. L’autorità legislativa è tutta intesa nel proporre e ristabilire ‘l’ordine’, così come fu determinato dal sovrano legislatore ch’è Dio e che non annulla ‘il primo istinto’ che lega tutti gli uomini tra loro e impianta in ognuno, com’è in Smith, l’idea e il sentimento di ‘società’. E’ un universo che lega il generale e il particolare, sentimenti e sensazioni, il bene e il piacere e i loro opposti. […]. In quell’ambito si colgono i principi di ‘sociabilità’ e ‘perfettibilità’, ch’è […] ‘fermentazione dello spirito che tende ad elevarsi da grado a grado’. […]. Non v’è dubbio che il pensiero del Briganti, provando e riprovando, si attiene, nel gran vespaio di ‘proposte’ e di idee che solcano il secolo e si dica pure tra Montesquieu e Rousseau, tra Pauw e Raynal, tra Pufendorf e Cuberland, tra Genovesi e Smith, ad una ‘tesi’ mediana , che condanna gli eccessi della sfrenata libertà, da una parte, e del dispotismo, da un’altra. […]. Ovunque poi l’invito alla ‘ragione’, non mai sottratta ‘alla dipendenza del supremo essere’, ma come strumento che ’rinfranca e dirige i timidi passi della natura umana ad elevarsi oltre la sfera caliginosa de’ sensi’”.
A questo trattato, scrive ancora il De Tomasi “il Briganti vi aggiunse un altro trattato sublime, e di non minore calibro, col titolo Esame economico del sistema civile, concatenato insieme col primo, e quasi indivisibile da esso”.
Nella breve introduzione il Briganti scrive che i popoli hanno prosperato quando hanno saputo conciliare un’esistenza operosa, una sussistenza copiosa, una consistenza rigorosa. “L’Esame analitico - egli continua - ha seguito il progresso del sistema legale, dallo stato di natura allo stato di società; in cui sviluppandosi un nuovo ordine di cose, l’autorità legislativa obbliga l’uomo ad essere cittadino ed il cittadino ad essere suddito. Scorso rapidamente un campo sì vasto, rimaneva da esaminarsi il progresso del sistema civile dall’esistenza perfettibile alla consistenza perfetta, in cui l’industria privata, moltiplicando il bene pubblico rende floridi gli stati e robuste le nazioni; soggetto non men degno di esporsi al colpo d’occhio delle anime generose, che s’interessano della sorte dei popoli”.
Se nell’Esame analitico, il Briganti ha cercato di stabilire i principi del suo sistema, nell’Esame economico il suo impegno è quello di costruire le tappe, per le quali è passata l’umanità governata dalla legge della perfettibilità. Quindi, quest’opera è la “storia del progressivo incivilimento umano, ricostruita ordinando un insieme di fatti non equivoci, analizzati dalla ragione”. Egli cerca di capire come progrediscano i popoli che riescono “a comporre nel tempo stesso, un’esistenza operosa, una sussistenza copiosa, una consistenza vigorosa”. Se nella prima opera l’oggetto della ricerca era stato la perfettibilità, quello della seconda è la prosperità. Da un punto di vista filosofico, l’analisi fatta nell’Esame economico è diretta prevalentemente alla verifica storica dei suoi principi.
Il merito di aver messo in luce l’unità di pensiero delle due opere, alla fine dell’Ottocento, quando si ebbe un riesame del pensiero del Briganti, è da attribuire Carlo Massa (Filippo Briganti e le sue dottrine economiche, Trani 1897, pp.126-127) che annotò “tra di esse esserci grande e continua connessione. Una presuppone l’altra, e si completano così da parere, più che due opere diverse, due parti di una stessa opera”.
Serenella Armellini nel suo saggio, Progresso e perfettibilità dell’uomo nell’opera di Briganti, pur riconoscendo al Massa questo merito, gli rimprovera di essere anch’egli caduto nell’equivoco, che durava ormai da più di un secolo, di considerare il Briganti economista e di non aver “tenuto conto del fatto che egli trattava le questioni da filosofo e non da economista”.
La saggista, rilevando che solo recentemente “il Venturi ha fatto giustizia di tutti gli equivoci che, per lungo tempo, ne hanno falsato il pensiero”, ha fornito una sintesi della dottrina del Nostro, ponendolo in relazione alle correnti dell’epoca, e si è sforzata di dissipare l’equivoco di un Briganti economista, “qualifica questa che ha certamente nuociuto ad un’esatta comprensione del suo pensiero, giacchè suo fine era quello di congiungere un’analisi dell’uomo ad una visione della storia universale, unire la natura dell’individuo alla visione della perfettibilità di tutto il genere umano”. Per raggiungere questo fine, annota ancora la Armellini, il Briganti non doveva ricorrere necessariamente, come alcuni pubblicisti hanno scritto, all’aiuto delle opere dello Smith, del Galiani e del Verri, ai lavori economici del Beccaria, pubblicati prima delle sue opere, né tanto meno all’esperienza che altri come il Filangieri o il Palmieri fecero nelle pubbliche amministrazioni, “per l’ovvia ragione che egli non intendeva fare opera di economia”. Il Briganti per questo suo progetto di realizzazione di una storia universale, comune ad altri pensatori italiani del periodo come Filangieri, Cuoco e Pagano, subì, invece, l’influenza del Vico e di pensatori francesi come il Voltaire, Turgot e Condorcet, e se egli lo attuò in misura maggiore degli altri “interpretò le nuove esigenze in senso tradizionale e formalistico”.
Crediamo che la Armellini abbia visto giusto quando ha concluso che il sistema del Briganti, “non si può riportare nel campo dell’economia ma in quello della filosofia della storia e, in parte, della filosofia del diritto”, e che è vero che “si è interessato di problemi economici, ma in quanto questi venivano a confermare i suoi concetti filosofici”.
Queste convinzioni pensiamo averle rintracciate anche nel Vallone, specie quando egli definisce Filippo Briganti “filosofo e poeta”, le cui varie attività e “rimeditazioni dei fatti sociali ed economici” egli “fonde e ricompone nella ricerca filosofica”.
Altri scritti nella vita intellettuale del Nostro ebbero notevole importanza. Famose alcune sue Allegazioni: Memoria in difesa del Primo Ceto della Città di Gallipoli, cui si aggiunge Sommario di ragioni del Primo Ceto de’ Nobili Patrizj della Città di Gallipoli in risposta Delle Calunniose istanze de’ sedicenti zelanti e pretendenti e con ispezialità dell’ultimo ricorso stampato della Negoziazione, con le quali difende, davanti al tribunale della Real Camera di S. Chiara, a Napoli, dopo la riforma del Parlamento civico del 1765, i diritti del primo ceto gallipolino contro tutte le ragioni del secondo e terzo ceto, presentate nella “supplica” al Real Trono dell’11 giugno 1776.
Estremamente significativo il saggio Della questione giudiziaria non solo per le idee che il Briganti sostiene “ma anche per il loro inserimento nella problematica più viva del tempo”: egli riprende, alla luce del trattato del Beccaria, Dei delitti e delle pene, l’idea dell’abolizione della tortura, già sostenuta dal padre Tommaso nella sua Pratica criminale, e si schiera con coloro che respingevano “l’integrale abolizione della pena di morte” e la giustificavano “almeno in alcuni casi limitati”.
Interessante anche il saggio Dell’uomo e delle sue passioni, Dissertazione per gli amici della virtù, nel quale cerca di definire l’uomo con le sue virtù e con i suoi difetti, i suoi istinti e le sue aspirazioni, “il principio dal quale è mosso, il mezzo per cui si muove, ed il fine ove tende il suo movimento, scuoprendo il metodo col quale egli possa sottomettere per le vie più facili l’esorbitanza della forza motrice alla facoltà direttiva, ch’è la diritta ragione”, perché “rinvenga il suo vero interesse, ch’è l’acquisto della sua felicità relativa alla sua essenza”. Qui regna ancora la ragione, ma non è più quella dell’Illuminismo: è la ragione guidata dall’alto, “ben regolata“, che si pone contro la corruzione e adopera i rimedi della “riprensione”, “direzione” e ”durazione”.
Il Briganti, “Infiammato sempre più da un forte spirito di filantropia, onde migliorar la sorte dei suoi simili, […]; diede ben anche alle stampe un Saggio sull’arte oratoria del Foro, col quale istruisce i Candidati forensi a far buon uso del diritto, per dar gloria alla verità, alla carità, ed alla giustizia”.
I problemi concreti della realtà in cui visse li affrontò nelle Relazioni e Memorie. Le più importanti: Del naufragio seguito nella rada di Gallipoli a 22 dicembre 1792, umiliata per parte della Città alla Maestà di Ferdinando IV; Memoria concernente i fondi per la costruzione di un nuovo porto nella Città di Gallipoli.
I contatti con il mondo antico rivivono nelle traduzioni delle Istorie romane di L. A. Floro, alle quali aggiunse alcune osservazioni critiche in cui, “mentre rende giustizia allo spirito nazionale ed alle virtù guerriere, condanna la distribuzione dell’età fatta dal Floro in Infanzia, Adolescenza, Gioventù e Vecchiezza, come ripugnante al sistema politico ed all’ordine cronologico”.
Ma il grande genio di Filippo Briganti “tuttochè consacrato sempre a profonde filosofiche meditazioni, pure di quando in quando non isdegnò di conversar con le Muse, e le Muse gli arrisero, e gli concessero in retaggio tutt’i loro tesori”: ecco allora Le quattro stagioni, i Frammenti poetici ed altri versi in genere, nutriti, come dice il Manna, “dal “sentimento civico e dal plutarchiano senso del dovere, uniti ad un alto umanitarismo illuministico” e per i quali “venne acclamato all’Arcadia di Roma con il titolo di Rosmenio Tiriense .
Era cattolico ”vero e perfetto senza superstizione”, assiduo praticante e tenne a dimostrarlo quando scrisse “per sé stesso nella vecchiaia una preparatoria alla Confessione e alla Comunione ed una visita al Santissimo Sacramento dell’altare” e se “aveva saputo farsi contraddistinguere per sommo letterato, con questi si manifestò qual’egli fu sempre, filosofo religioso e cristiano”. Nelle sue argomentazioni è sempre presente il principio motore di Dio, che guida la ragione dell’uomo per condurlo sul retto cammino e ristabilire l’equilibrio di quelle forze come la fantasia, l’amor proprio e la libertà delle quali spesso egli abusa. Negli Atti di pietà “scritti per proprio uso”, l’uomo si volge a se stesso, come prima si è rivolto alla cose, e si prepara intimamente ad essere se stesso. Quando il Nostro li scrive sono gli ultimi anni e non sono anni tranquilli: la venerazione universale e quella del popolo gallipolino non lo sottrassero ai tristi avvenimenti sopraggiunti improvvisamente in Gallipoli, la sera del 10 agosto 1799, quando i Borboni erano tornati sul trono di Napoli già da circa due mesi e le autorità repubblicane avevano ceduto i poteri cittadini. Alcuni nobili aizzarono contro i repubblicani la plebe, la quale, presa da violenza predatoria, assalì anche i palazzi dei benestanti che repubblicani non erano e trasse cinquanta cittadini nelle insalubri prigioni del Castello. Fra gli arrestati vi fu il vecchio Filippo Briganti che fu posto in libertà 53 giorni dopo, quando l’ordine fu ricostituito nella città.
Scrive il Ravenna: “Giunto finalmente il 1799, anno funesto per il Regno e pei disordini avvenuti in molte popolazioni, furono condotti nel castello di Gallipoli da gente rivoltosa molti onesti cittadini, tra i più distinti per natali e per opulenza. Tra questi ebbe l’istessa sorte Filippo Briganti, ch’era già ridotto in età avanzata: l’animo suo ne risentì molto per tale atto di vera ingratitudine, sperimentato in pochi perversi concittadini, mentr’egli era stato l’uomo il più benemerito della Patria, e dell’umanità. Le sue virtù, e la condotta integerrima lo sottrassero con tutti gli altri detenuti dalla minacciata procella, ma ne rimase abbattuto, ed oppresso, a segno tale, che a 22 febbraio [è il 23 febbraio] dell’anno 1804 terminò i suoi giorni con somma rassegnazione cristiana, ed il suo Cadavere fu sepolto nella Chiesa de’ Padri Riformati di S. Francesco”.
Nel 1818, Giovan Battista De Tomasi, biografo di Filippo Briganti, così scriveva: ”Gli uomini grandi e quindi illustri, che a proporzione degli sparsi sudori han saputo meritarsi un posto distinto nel sacro tempio della virtù, ed indi ancor dell’onore, e gradatamente o i lauri trionfali o le corone di civica quercia sulle lor tempia, abbenchè si contentino del solo splendor della gloria, né lor abbisognino gli amminicoli dell’altrui luce per essere ragguardevoli; pure la gratitudine dei Popoli non deve che compiangerli quando si perdono, e consacrare alla posterità il loro nome con tributi di laudi e di pubblici elogj. […]. Filippo Briganti di Gallipoli, l’uomo di genio è per appunto uno di quei, cui è di diritto ancora questa spezie di culto, Filippo Briganti che l’estere penne han sempre onorato di encomj, privarsi non deve della giustizia de’ suoi compatrioti”.
Purtroppo i suoi scritti, il suo pensiero, il patrimonio culturale che egli costruì durante quella luminosa stagione del secondo Settecento salentino non hanno avuto né cittadinanza né circolazione. Non per divieti, ma per noncuranza, per inconsapevolezza e talvolta anche per colposi silenzi. E’ la stessa sorte toccata a tanti altri gallipolini vissuti nei secoli precedenti al suo o che verranno dopo, che si distinsero nel campo della filosofia, della letteratura, del diritto, della musica, delle arti figurative, o che diedero il loro contributo per la causa unitaria.
Le esortazioni ed i numerosi appelli che da sempre sono stati e vengono rivolti a coloro che sono deputati a render loro i dovuti omaggi sono stati sempre ignorati né tanto meno saranno accolti “nelle angustie e nello sconforto dell’ora presente, fra tanta ruina di uomini e di cose, nel fatal dissolversi di sistemi ed istituzioni, fra tanta sfiducia nell’avvenire”. Così ci sia consentito ripetere con il Briganti: “ben si sa, che il maggior numero avrà sempre con sé la superiorità delle forze, che avrà sempre al suo fianco la vittoria, ed ai suoi piedi il più debole, ma la forza non è sempre un diritto, la vittoria non è di ogni tempo e la debolezza non è di ogni luogo”.
 

 

[home page] [indice]